giovedì 26 febbraio 2009

Secondo "post" - Gli indicatori di competitività di un'impresa

La prima settimana del corso di Economia e Gestione delle Imprese è stata dedicata alla presentazione delle categorie concettuali che accompagneranno lo studio della disciplina nel resto del semestre e alla formazione di un linguaggio più tecnico che possa consentire di illustrare meglio i temi del corso.
Un'attenzione particolare è stata rivolta al concetto di competitività d'impresa. Abbiamo chiaro che "competitività" è:
  • un costrutto concettuale non immediatamente intuitivo (anche se nel linguaggio comune, si abusa di questo termine, specialmente quando competitività è riferita a livello del Paese);
  • un concetto intimamente collegato all'esistenza di uno scenario (un mercato, un settore o un business) in cui ci sono più imprese (meglio ancora, se tante imprese) in concorrenza fra loro;
  • un concetto di cui non è possibile fare un'istantanea (come quando si scatta una foto!), ma che bisogna cogliere in prospettiva temporale;
  • un costrutto che tiene conto di quello che l'impresa vuole fare, anche nel futuro, combinando tra loro le leve del prezzo e della qualità dell'offerta;
  • un concetto che non può essere scisso dal tema dell'innovazione.

Il concetto di competitività ci accompagnerà durante tutto il corso. Parleremo, infatti, di differenziali di competitività fra le imprese, per capire - in un dato settore, mercato o business - perchè alcune imprese fanno meglio di altre; di vantaggio competitivo (in termini di leadership dei costi o di differenziazione); di strategie competitive, ovvero di scelte poste in essere dalle imprese per conseguire un vantaggio competitivo. E naturalmente non potremo fare a meno di parlare dell'etimo da cui si origina il termine competitività, ovvero la competizione.

Vi chiedo un ultimo sforzo. Ovvero provare a creare Voi stessi una griglia di indicatori della competitività di un'impresa. In altri termini, quali sono secondo Voi due, tre, ...dieci,..n indicatori della competitività di un'impresa e provare a riportarli nei commenti a questo post. Un consiglio: più gli indicatori sono misurabili, più facile ed intuitiva ne risulta la comprensione anche a chi non frequenta un corso universitario di Economia e Gestione delle Imprese.

Buon lavoro a tutti e buon fine settimana!

10 commenti:

Anonimo ha detto...

un'indicatore della competitività potrebbe essereil bilancio del'azienda, che può darci delle informazioni sulla posizione di questa nel mercato, naturalmente confrontandolo con quello delle altre imprese.
M.Lanza

Rosario Faraci ha detto...

Chiarimento del docente. Il bilancio è un insieme di voci contabili. C'è qualche voce del bilancio, o qualche indicatore riclassificato dal bilancio, che può esplicitare la posizione competitiva dell'impresa sul mercato?

Anonimo ha detto...

le vendite

Emanuele Lavia ha detto...

Dopo un'attenta riflessione, ho pensato di dividere gli indici di competitività in due categorie:
La prima riguarda l'analisi degli indici di redditività; il più importante è il ROI che riporta la redditività del capitale investito attraverso la gestione tipica dell'azienda (ed è dunque indice fondamentale per capire come sia gestita l'azienda).
Il secondo, ma altrettanto importante, è il ROE questo indicatore di massima sintesi tiene conto di tutti gli aspetti della gestione aziendale. Esso mette a confronto il risultato di bilancio con il capitale netto e rappresenta quindi uno strumento che consente ai soci di valutare la bontà del loro investimento dell’impresa.
Un altro indice (non ricordo se esista) che può essere preso in considerazione è quello che si ottiene confrontando il totale degli investimenti con la spesa per la ricerca e lo sviluppo in generale (questo indice è molto diverso da settore a settore).

Il secondo gruppo d’indici può essere definiti "sociali" poiché non riguardano l'aspetto puramente finanziario.
Penso che sia molto importante per un’azienda calcolare il grado di soddisfazione dei propri dirigenti-lavoratori poiché una scarsa responsabilizzazione del personale (di qualunque livello) crea un cattivo ambiente di lavoro e quindi meno competitività.
Questo indice, può essere calcolato in maniera non molto difficile tramite la somministrazione periodica di un test (non mi dilungo su quest’ aspetto in quanto molto complesso).
Un altro elemento di analisi può essere il rapporto dell’azienda (anche medio - piccola) con il territorio, infatti, se un’impresa ha delle forti radici nella zona, è più competitiva rispetto ad altre, in quanto riesce a risolvere una tipologia di problemi(quindi riduzioni di rischi nel lungo tempo) che risultano essenziali .

Anonimo ha detto...

considerato che la competitività è strettamente legata alla capacità dell'impresa di trasformarsi e rinnovarsi in relazione ai cambiamenti del mercato, dal bilancio aziendale, è possibile verificare da specifiche voci ,se l'azienda investe al fine di rendersi più competitiva.
Tali voci riguardano LA RICERCA E LO SVILUPPO, la FORMAZIONE DEL PERSONALE e sicuramente le NUOVE TECNOLOGIE.
Contrariamente la voce che riguarda il costo del lavoro non credo sia un elemento sufficiente a valutare la competitività d'impresa.

Anonimo ha detto...

Gli indici di competitività sono essenzialmente una serie di valori numerici (rapporti numerici) che permettono al manager di valutare il proprio successo, e sicuramente il mercato rappresenta l'arena in cui si scontrano le imprese cercando di essere l'una migliore di altre.
Sicuramente tra gli indici di competitività ke mi vengono in mente posso citare i costi, un impresa deve essere competitivà in termini di costo della materia prima cercando di acquistarla al minor costo per poi vendere il prodotto finito al cliente ad un prezzo più basso di altre aziende, ma non solo la competitività sta pure nel fatto di avere una approfondita conoscenza dei propri cliente, per permettere all'impresa di soddisfare al meglio i bisogni di questi ultimi.
Essere competitivi può riguardare anche l'immagine di un'azienda, la corretta pubblicità che questa fa dei suoi prodotti, tanto che molte volte noi prefariamo scegliere prodotti che vediamo in televisione piuttosto che altri, pur avendo le stesse qualità di altri prodotti. Un'altro indice di competitività importante penso che sia la tecnologia, ossia il grado di sviluppo di un'azienda.
Questa è l'ida che mi sono fatto del concetto di competitività.

Stefania ha detto...

Dal suo consiglio penso che ciò a cui dobbiamo fare riferimento parlando di indicatori della competitività siano degli elementi:
- singoli e misurabili.
- e capaci di segnalare con un semplice valore numerico il risultato delle proprie analisi.
Quindi credo che i discorsi sull’innovazione, sulla formazione del personale etc. che ho letto in alcuni commenti, siano, si, elementi importanti ma su un altro piano (quello cioè discusso a lezione mercoledì) rispetto a questo argomento.

Utilizzo lo stesso approccio del primo post!
Se andiamo a cercare sul dizionario il termine “indicatore”, così come si è fatto con il termine “competitività” capiamo che anche nel nostro ambito, così come nella chimica o nell’informatica,ciò che richiede il significato stesso della parola , non è di certo la misurazione di una prestazione (per esempio la capacità di essere innovativi), che magari è difficile da esprimere o misurare, ma qualcosa che “indica” il suo andamento (per esempio il numero di nuovi modelli commercializzati di auto).

Quindi prima di tutto è necessaria la misurazione del reddito dell’impresa, ovvero del suo risultato. A questo punto gli indicatori in gioco sono:

- l’utile e la perdita.

Poi penso che un’impresa deve tener conto di indicatori come:

-La quota di mercato : ovvero quanto l’impresa è “grande” rispetto alle altre

-La produttività

-Il tempo di sviluppo, progettazione, implementazione o commercializzazione di un prodotto

- I dati di costo dei reparti per esempio

-La quantità delle risorse disponibili

Poi si può conformare un valore rapportandolo a un altro valore.Ovvero confrontarlo con un parametro obiettivo che fa da unità di misura (come per esempio il valore dell’anno prima) ottenendo così altri possibili utili indicatori..

Questo è ciò che per ora mi è venuto in mente

Anonimo ha detto...

SILVANA LAROCCA e LORENA MANDUCA hanno detto...
Indicatori di competitività potrebbero essere:
-CAPITALE DI FUNZIONAMENTO (ovvero quanto del capitale disponibile è stato utilizzato per portare a compimento un ciclo della produzione)

-Valore di un'impresa (compreso di avviamento)
-Confronto con imprese che operano nello stesso settore
- Quota di mercato
A nostro avviso,un'impresa per acquistare un vantaggio competitivo deve puntare inanzitutto su una efficiente politica strategica, ma anche la dimensione di un'impresa è un apetto fondamentale da non tralasciare. Di seguito abbiamo inserito un articolo che rende l'idea di quanto espresso precedentemente.
"Nell’arena internazionale si stanno irrobustendo le dimensioni dei gruppi che mirano a diventare leader, anche in settori di nicchia. Per resistere e garantire sviluppo futuro imprenditori e banchieri sono chiamati a dialogare su nuovi fronti, per dare alle industrie la dimensione giusta e affrontare con più vigore la concorrenza. Non solo prestiti e debiti: prima della contabilità e della gestione di cassa ci deve essere una politica strategica di più ampio e lungo respiro.

Agli inizi degli anni Duemila le medie imprese italiane con grande capacità innovativa e fortemente internazionalizzate erano poco meno di tremila. Secondo le ultime stime di Confindustria nel corso di questi anni sono salite a circa 4500 mentre sono almeno 1500 pronte a fare il salto di qualità. Nonostante la concorrenza delle agguerrite aziende cinesi e indiane, molti gruppi della Penisola hanno trovato la forza per spingere sull’acceleratore e affermarsi su una scena più competitiva. Si potrebbero raccontare molte storie di aziende che hanno saputo dare un colpo di reni alle proprie attività. La società farmaceutica Rottapharm di Monza, ad esempio, nel 2007 ha acquisito la tedesca Madaus per dare vita ad una realtà che nel settore mostra un giro d’affari di circa 650 milioni di euro, con 2 mila dipendenti e una quarantina di stabilimenti sparsi nel mondo. Questo passo evolutivo è stato compiuto facendo ricorso a mezzi propri e a capitale di debito prestato dal circuito bancario, in questo caso Mediobanca. Per molte imprese la crescita dimensionale è una necessità imposta dalle regole del mercato, che richiede presenza capillare distribuita, capacità di far fronte alle richieste emergenti, efficienza nella fase di sollecitazioni produttive e innovative. Per dare queste risposte alcune realtà si sono date una visione e soprattutto risorse, umane e finanziarie, facendo ricorso tanto a gruppi di consulenza manageriale esterni per trovare gli uomini e i supporti giusti quanto a funzionari bancari capaci di affrontare e seguire un processo di crescita. Il nodo fondamentale in questo panorama resta comunque la patrimonializzazione, cioè la capacità di dotarsi di capitali da investire nell’attività e in grado di mantenere comunque remunerativo l’investimento.

L’importanza dell’innovazione
In un’economia aperta e globalizzata i capitali si rimescolano, gli investimenti puntano ad acquisire prodotti e processi di qualità. Se un imprenditore non innova e si trova a corto di risorse per finanziare il rilancio si espone ai venti del mercato, che hanno orecchie sensibili e attente. Può allora accadere che ad essere acquisite siano aziende italiane. Nel campo delle forniture tessili sono i capitali indiani ad essere predatori. Il gruppo New Co. Cot., dopo aver rilevato tre anni fa la Olcese ha recentemente acquisito la Manifattura di Legnano. Insieme, queste due realtà vantano complessivamente una decina di stabilimenti produttivi di filati in cotone e in lana. E così il colosso indiano è diventato il principale fornitore di semilavorati di base per i camiciai e per le maglierie. Marchi storici e famosi come Lacoste acquistano ad esempio filati di cotone prodotti in Italia (o in subsidiary di società italiane all’estero) perché il know-how e le competenze non si improvvisano dall’oggi al domani. C’è ovunque una gran fame di capitali, e a tutti i livelli di grandezza d’impresa, per aumentare la massa critica, per fare acquisizioni, per migliorare il processo produttivo, anche per evitare scalate da concorrenti ostili. La Valli & Valli di Monza è un’altra azienda storica del Made in Italy. Fu fondata nel 1934 e ancora oggi produce maniglie di altissima qualità in ottone e in metallo fuso. Sin dall’anno della sua costituzione la società ha sempre cercato di proporsi al mercato sul segmento di alta gamma, lavorando per i mobilieri brianzoli e per gli architetti che disegnano nuovi modelli da proporre ai committenti di progetti. Il momento d’oro dell’azienda è stato parallelo al boom economico, con la diffusione di porte, la realizzazione di alberghi, uffici, centri di comunità. La Valli & Valli è un’azienda dal marchio fortissimo e riconosciuto in tutto il mondo, con 200 dipendenti per un giro d’affari di 30 milioni di euro. Tuttavia questa impresa nel corso degli anni ha presentato un limite dal quale non è uscita: non produce serrature. I vari cinesi che hanno trovato modo di copiare gran parte dei suoi modelli non possono essere tacciati di concorrenza sleale perché hanno riprodotto gli stessi esemplari, ma muniti di apparati per l’apertura e la chiusura. Inoltre sono in grado di offrire portoni antipanico oltre a congegni di sicurezza e aperture a scheda magnetica. Che cosa poteva fare un’azienda costretta ad affrontare questa situazione? Forse cominciare a produrre anche serrature. Oppure acquisire una azienda che le produce. Ma queste operazioni sarebbero state lunghe, dispendiose, incerte. La vicenda ha trovato un epilogo: l’azienda è stata acquisita da un gruppo svedese, l’Assa Abloy, che punta a diventare leader di mercato nel settore delle porte. In questa storia non ha vinto chi aveva le idee, il mercato, la capacità creativa, la flessibilità. Ha vinto chi ha saputo mettere sul tavolo capitali per internazionalizzare il marchio. Il caso è emblematico e vale la pena di un’approfondimento.
Le dimensioni contano
Molte piccole e medie imprese italiane hanno produzioni eccellenti, invidiate e spesso anche copiate. Perché non sanno fare il salto di qualità? Gli economisti danno diverse interpretazioni. Una tra le più provocatorie e celebri fu elaborata alcuni anni fa da Mario Sarcinelli, che sulle pagine de Il Sole 24 Ore del 22 febbraio 2003 così commentò la questione: “La piccola dimensione delle imprese si è accentuata nella struttura industriale italiana negli anni ’90. Tra il ’96 e il ’99 il peso della classe di imprese composte da 1-2 addetti è aumentato, quella con 100 dipendenti e oltre rappresentava meno di un quarto dell’occupazione nelle industrie e nei servizi. Volendo esprimere tutto questo in termini paradossali si può affermare che quello che sta crescendo in Italia è il nanismo industriale”. Il fenomeno della “nanizzazione” delle imprese fu alimentato dal forte sviluppo della sub-fornitura negli anni ’70: molte grosse imprese per abbattere costi fissi e operativi favorirono la creazione esterna di catene produttive. Si creò una filiera e un indotto sottocutaneo ma sempre riferito a quei pochi e grandi gruppi. Il risultato fu la parcellizzazione del sistema e la frantumazione delle capacità innovative. Ancora nei nostri tempi, secondo uno studio elaborato da Capitalia alcuni anni fa, “le imprese che lavorano su commessa delle grandi imprese sono il 68% del totale”. Queste realtà produttive hanno in genere uno o due grandi clienti, solitamente gruppi industriali leader nel settore; queste piccole e medie realtà non esportano, non lavorano con l’estero, hanno esperienze tipicamente nazionali e in genere sono condotte e tramandate a livello familiare. Sono dunque poco sensibili al cambiamento, al rischio di mercato e un termine come “internazionalizzazione” appare loro piuttosto astruso. Lo ha messo in evidenza con lucidità Marco Fortis, economista e direttore del Centro Studi Edison, in uno dei recenti Rapporti sullo stato dell’industria e dei distretti italiani: “Uno degli aspetti critici del sistema delle piccole e medie imprese italiane è rappresentato dal fatto che essendo in larga maggioranza ad azionariato familiare ormai presentano un livello inadeguato di capitalizzazione”. In questa situazione si riscontra che, quasi come una automatica conseguenza, queste imprese sono in genere molto indebitate con una forte prevalenza del debito bancario e soprattutto di quello a breve termine. Il volume dei prestiti alle società industriali è salito del 70% nel periodo 1995-2002. Ecco il punto dolente: in assenza di un’adeguata politica di crescita e di patrimonializzazione, i finanziamenti attraverso i debiti non servono a generare investimenti produttivi e innovazione, ma servono solo a gestire con qualche presunta sicurezza in più il circolante, il flusso di cassa, le operazioni di tesoreria, la contabilità fornitori e clienti. In altri termini queste sono misure che sono utili solo a far sopravvivere l’impresa, a farla galleggiare ma senza darle quella visione e quella capacità di acquisire nuove posizioni e raggiungere sempre più ambiziosi traguardi".

Di Maria Melantoni,maggio 2008.

Massimiliano Lantieri ha detto...

Da quanto appreso in queste prime 3 lezioni credo che il concetto di COMPETITIVITA' D'IMPRESA sia strettamente legato all'esistenza di un normale confronto tra imprese, si trova dunque alla base della concorrenza fra di esse.
Alla luce di questo mio pensiero dico che "INDICATORE" di competitività d'impresa è una grandezza misurabile che, sicuramente in maniera oggettiva, giustifichi l'andamento dell'attività (commerciale o industriale che sia) di un'impresa e l'efficienza della stessa.
L'INDICATORE dunque farà riferimento a qualsiasi aspetto d'impresa che ne caratterizza la diversità, il differenziale:

- CAPITALE DI PARTENZA E DI FUNZIONAMENTO: indica la capacità economica

- N° ALLEANZE STRATEGICHE: indica la capacità di essere flessibili di fronte a qualsiasi cambiamento di mercato, settore o business

- FATTURATO: indica il guadagno, l'utile

- QUOTA DI MERCATO: indica quanto l'impresa è "grande" rispetto alle altre

- N° INVESTIMENTI: indica la capacità d'innovazione

- PREZZO FINALE DEL PRODOTTO: indica la capacità di gestire i costi di produzione

- QUALITA' DEL PRODOTTO: indica quanto sia ampio o ristretto l'insieme numerico dei concorrenti

Questo è quanto ad oggi sento di scrivere...buon lavoro a tutti.

MASSIMILIANO LANTIERI

salvo leonardi ha detto...

Si usano indicatori comparativi per mettere a fuoco un aspetto del sistema, la sua
competitività. Ma che cosa intendiamo per competitività? Si sa che la vita è anche una gara:
competono gli individui, le organizzazioni, i sistemi. Competitività è la capacità
(dell’individuo, dell’organizzazione, del sistema) di competere con successo. Ma in quale
gara?
Qui ci occupiamo della gara economica, quindi lasciamo da parte lo sviluppo umano e la lotta
alla povertà. Ci occupiamo della capacità di competere nella lotta per i mercati dell’economia
globalizzata.
La capacità di competere di un’impresa si misura confrontando prodotti, servizi e prassi
aziendali con quelle dei concorrenti più forti. È questo il lavoro degli specialisti di
benchmarking.
Analoghe tecniche si sono a lungo applicate alla ricerca della capacità di competere di un
sistema economico. Si è guardato soprattutto al commercio estero. Il sistema che esporta beni
e servizi più di quanti ne importa è evidentemente competitivo.