mercoledì 4 marzo 2009

Bronte e l'industria tessile

http://giornale.lasicilia.it/giornale/0303/CT0303/ILFATTO/MO04/navipdf.html ed inoltre http://giornale.lasicilia.it/giornale/0303/CT0303/ILFATTO/MO05/navipdf.html. Lascia un commento.

6 commenti:

Emanuele Lavia ha detto...

Dopo aver letto entrambi gli arcicoli ed aver cercato su internet altre informazioni sull’azienda diesel, ho dedotto che si tratti di un ennesimo caso di delocalizzazione (La delocalizzazione rappresenta l'organizzazione della produzione dislocata in regioni o stati diversi, ragionando sul mercato delle offerte a livello planetario e non più nazionale o regionale, ha consentito di pensare che alcune funzioni produttive possano essere totalmente delocalizzate in luoghi ritenuti più adatti).
Questo mia sensazione è confermata anche dagli imprenditori di Bronte che parlano di come l’azienda Diesel preferisca produrre in paesi dove il costo di produzione è nettamente inferiore (2.40 euro contro i 7 italiani).
Penso inoltre che, nonostante la “colpa” di questi imprenditori, debba intervenire il governo nazionale e/o regionale attraverso degli ammortizzatori sociali per tutto il periodo della crisi.

Anonimo ha detto...

Leggendo i due articoli si può individuare subito che il problema in questione è la "fuga" degli imprenditori italiani all'estero. Le ragioni di questa "fuga" sono molteplici anche se tutte da collegarsi alla convenienza economica. Un altro esempio oltre la diesel, che è stato già trattato in aula, è la fiat che ha trasferito alcuni modelli di produzione in Polonia. Questo problema accade per un semplice motivo: il minor costo del lavoro all'estero rispetto al costo del lavoro italiano. Sicuramente è un problema che va a incidere negativamente sul sistema economico e sociale. A questo punto sorge una sola domanda: quale sarà la fine dei lavoratori italiani se questo fenomeno continua a crescere?

Anonimo ha detto...

A mio parere, quello che oggi spinge le imprese a spostare la produzione in altre parti del mondo non è da considerarsi solo sotto il punto di vista del minor costo della mano d’opera. Credo che sia invece l’unione di più fattori che fa sì che le imprese ritengano più proficuo spostare la loro imprese all’estero. Quindi al fattore del reclutamento della mano d’opera specializzata a basso costo, credo che dovremmo aggiungere altri fattori. L’ingresso in un mercato sempre più globale, che favorisce lo spostamento di denaro e merci più facilmente, e riduce i costi del trasporto internazionale credo possa essere uno dei primi fattori. Un altro fattore da considerare è la presenza di mercati nuovi che offrono un forte sviluppo, cioè l’impresa potrebbe trovare conveniente cambiare mercato nel quale operare, perché quello in cui si trova ad opera è saturo (abbiamo visto che ad esempio la Barila sta cercando di entrare nel mercato americano perché quello italiano non ha più grande possibilità di crescita), quindi possibilmente si sposta in quanto le interessa essere vicini a nuovi mercati di sbocco. Un altro motivo dello “spostamento” potrebbe essere forse l’occasione di usufruire di risorse e/o tecnologie specifiche di alcune particolari aree geografiche. Ed infine un ultimo motivo, che mi viene in mente leggendo l’articolo, è che l’impresa possa decidere di spostare la sua produzione in quei paesi dove trovi agevolazioni, o “semplificazioni” finanziarie, e dove sia in vigore una legislazione più flessibile, con costi del lavoro (e quindi non della mano d’opera) più bassi e con meno tasse da versare all’erario.

Leggendo però l’articolo, e vedendo che la Diesel producendo in paesi come la Tunisia o il Marocco riesce a produrre un jeans a meno della metà del costo che avrebbe a Bronte, mi viene un dubbio. La Diesel vuole cambiare leva su quale fare forza per la sua strategia (cioè vuole fare forza sul prezzo anziché sulla qualità)? Se così fosse non perderebbero 2 fattori principali del successo quali soddisfazione della clientela e qualità dei prodotti?

Claudio Lavenia

Stefania ha detto...

Claudio Lavenia ha ragione quando parla di non sminuire l’interesse dell’imprenditoria italiana a produrre all’estero solo al motivo della manodopera a basso costo..E’ vero che sono tanti i fattori in gioco, ma per chi decanta la qualità del Made in Italy, queste scelte dovrebbero essere impedite.
Ma in un sistema di mercato globale,quale il nostro, come si fa a vietarle? Non si può..
Ho letto che la Diesel ha dichiarato che è costretta a tagliare gli ordini a Bronte a causa del calo delle vendite. Dall’altra parte i sindacati sostengono invece che i profitti dell'azienda continuano ad essere più che floridi nonostante la crisi.
La verità, si pensa quindi , è che la Diesel vuole aumentare i propri margini di guadagno e così preferisce rifornirsi di più nelle proprie fabbriche di Marocco e Tunisia dove un capo costa 2,40 euro!
Però mi sorge una domanda..
Ma poi i capi di abbigliamento prodotti lì, verranno commercializzati con il marchio made in Italy?
E se mi faccio questa domanda è perché evidentemente altre aziende italiane giocano su questo punto. Benetton, per fare un esempio, produce fuori dai confini nazionali milioni capi al giorno. Su quanti di questi c'è il marchio made in Marocco o made in Cina poi in realtà?
I piccoli imprenditori per lo più vorrebbero che il marchio made in Italy fosse riservato a merci prodotte interamente in Italia in tutte le loro componenti (come è il caso dei titolati dell’azienda tessile di Bronte), mentre gli industriali maggiori, che hanno delocalizzato parte della subfornitura ritengono sufficiente che sia italiano il design o brevetto.
L’azienda brontese dipende dalle commesse di una grande firma, così come tante piccole-medie aziende in Italia.
E se non possono più puntare sulla “marcia in più” della qualità del prodotto che riescono a produrre perchè è stato preferito puntare su altro, queste aziende, a cosa potranno mirare adesso? Come salvaguardarle?
Servono non solo degli ammortizzatori sociali, ma delle regolamentazioni,degli incentivi..

Anonimo ha detto...

Abbiamo detto in aula che una buona strategia richieda il mettere in atto quattro fattori:
1. obiettivi semplici, coerenti e a lungo termine
2. profonda comprensione dell’ambiente competitivo
3. valutazione obiettiva delle risorse
4. implementazione efficace.
A proposito delle imprese tessili di Bronte e della crisi che vivono a causa della riduzione del 70% delle commesse, mi viene da pensare che Renzo Rosso, il quale ha un accordo con queste imprese; stia a causa della crisi percorrendo una strada diversa da quella inizialmente pianificata.
Infatti nell’articolo egli asserisce che la strategia di Diesel rimane la salvaguardia del made in Italy anche se questo suo obiettivo non è coerente con quello che nella realtà accade, visto l’attuazione di un processo di delocalizzazione in paesi come Marocco e Tunisia dove i costi di produzione sono minori.
Quindi io penso che sia giusto da parte di Renzo Rosso andare a rivedere gli obiettivi che intende attuare e soprattutto fare una corretta valutazione delle risorse di cui dispone, e mi riferisco in particolare alla manodopera specializzata presente nelle imprese tessili di Bronte. E solo dopo questi chiarimenti decidere se puntare sulla leva qualità sicuramente garantitagli da una vera produzione made in italy, o se puntare sulla leva prezzo assicuratagli , invece, dal processo di delocalizzazione e che del made in italy porta solo il nome.
Rossella Fazzino

Anonimo ha detto...

Voglio riprendere questo post in cui abbiamo discusso della scelta della Diesel di delocalizzare in modo da ridurre i costi di produzione.

Riporto questo articolo, perchè leggendolo ho visto che richiama uno dei prossimi punti che tratteremo a lezione in merito alle scelte di internazionalizzazione dell'impresa e quindi può essere fonte di discussione.
Marchionne "condanna" la forte tendenza delle aziende italiene di delocalizzare,indicandone i forti limiti, ma sottolineando invece la necessità di internazionalizzare come addirittura unica soluzione vincente in alcuni mercati emergenti.


Torino, 27 mar. - (Adnkronos) - ''L'eccesso di delocalizzazione, che non porta necessariamente sviluppo nei Paesi in cui l'azienda va ad insediarsi e puo' provocare invece effetti negativi al Paese d'origine, credo sia una strategia molto pericolosa''. Lo ha detto l'ad della Fiat, Sergio Marchionne, sottolineando che ''non solo il territorio che perde attivita' produttive subisce un calo nel tasso di occupazione del settore e vede diminuire la propria competitivita', a ridurre il livello di produzione interna provoca una contrazione dei flussi di export e, allo stesso tempo, un aumento dell'import, causando un generale peggioramento del saldo della bilancia commerciale''

Altra cosa e', invece, L'INTERNAZIONALIZZAZIONE delle attivita'. ''La delocalizzazione di cui soffre l'industria in genere e anche quella dell'auto - ha concluso - non va confusa con l'espansione della produzione all'estero, che risponde invece ad una precisa scelta di sviluppo internazionale e che, in alcuni mercati emergenti, e' una scelta obbligata''

E comunque ultimamente nei dibattiti politici si parla di dare incentivi a quelle imprese che non delocalizzano e anzi sostenendo pure che le piccole e medie imprese italiane possono superare l’attuale crisi economica puntando proprio sull’internazionalizzazione.

Ma obiettivamente poi..le PMI sono davvero in grado di sostenere i costi derivanti da questo tipo di scelta in un periodo di crisi economica?E'una soluzione reale?

Stefania Niciforo